giovedì 18 settembre 2008

EPO rinfresca la memoria

Più EPO, più memoriaIl risultato potrebbe portare a nuove strategie terapeutiche nel trattamento di patologie a carico del sistema nervoso che diminuiscono le capacità cognitive
Un farmaco utilizzato per incrementare la produzione di sangue sia nei trattamenti medici sia come doping delle specialità sportive sembra avere un effetto positivo sulla memoria di chi lo utilizza. È questa la conclusione di un lavoro pubblicato sulla rivista online ad accesso libero “BMC Biology”, che mostra inoltre come l’eritropoietina (EPO) non sono sia correlata agli effetti sulla produzione di sangue ma eserciti anche un’influenza diretta sui neuroni. Il risultato, ottenuto osservando un gruppo di pazienti affetti da insufficienza renale cronica e trattati con EPO, potrebbe portare a nuove strategie terapeutiche nel trattamento di patologie a carico del sistema nervoso che diminuiscono le capacità cognitive, come la schizophrenia, la sclerosi multipla e l’Alzheimer."Questi effetti dell’EPO avrebbero potuto essere collegati all’influenza del farmaco sulla produzione di sangue”, ha spiegato Hannelore Ehrenreich, ricercatrice del Max-Planck-Institut che ha coordinato lo studio, "ma l’aver trovato recettori per l’EPO sulle cellule nervose suggerisce che siano coinvolti altri meccanismi.”Per studiare i meccanismi dell’incremento delle capacità cognitive indotte dall’EPO, i ricercatori hanno anche studiato l’effetto della sostanza sui topi per verificare l’effetto dell’esposizione a lungo termine. Dopo il periodo di trattamento, i topi che hanno ricevuto l’EPO mostravano in alcune situazioni di avere una migliore memoria rispetto al gruppo placebo: l’effetto durava fino a tre settimane, per poi scomparire alla quarta.Gli specifici miglioramenti di memoria erano associati alla funzionalità dell’ippocampo, una regione cerebrale che sovrintende alla memoria e ad altri processi cognitivi.Tale correlazione è il risultato delle successive analisi del tessuto ippocampale, trovando che l’EPO influenza i neuroni di questa struttura.
Federico Cesareo

martedì 26 agosto 2008

STAMINALI CHE CREANO I PROPRI AMBIENTI

Si tratta delle cellule staminali follicolari, studiate nella drosofila
Alcune cellule staminali si fanno carico del loro ambiente circostante, modellandolo per controllare la divisione e la differenziazione cellulare. E' quanto risulta da una ricerca condotta da ricercatori della Rockefeller University diretti da A.M. O'Reilly che ne riferiscono sul Journal of Cell Biology.
Secondo la visione classica le cellule staminali sono allevate come neonati: le cellule circostanti lel accolgono in una struttura detta nicchia che non solo provvede al loro nutrimento ma anche a indirizzarne il comportamento, determinando se esse debbano riprodursi e specializzarsi. In altri termini, è la nicchia a dar forma alle staminali e non viceversa.
Ora O'Reilly e colleghi hanno trovato prove dell'esistenza di cellule staminali più attive mentre studiavano il modo in cui nella drosofila tali cellule si tengono ancorate alle ovaie dell'insetto. Precedenti ricerche avevano mostrato che le cellule staminali delle ovaie restano attaccate alla loro nicchia grazie alla proteina E-caderina, ma restava il dubbio se esse dipendessero anche dalle integrine, proteine di superficie che legano le molecole della matrice extracellulare al citoscheletro.
I ricercatori hanno scoperto che le cellule staminali follicolari (FSC) sfuggono dalla loro nicchia quando sono portatrici di integrine mutanti. Queste cellule hanno una forma anomala, si dividono più lentamente e hanno la caratteristica, condivisa con alcune cellule cancerose, di non fermarsi quando entrano in contatto con altre cellule.
Le integrine si attaccano a una proteina della matrice extracellulare chiamata laminina A, normalmente pompata all'esterno dalle stesse FSC. Le staminali mutanti non erano tuttavia in grado di produrre il proprio "ormeggio" e si riproducevano lentamente. I ricercatori hanno anche mostrato che gli altri due tipi di cellule staminali presenti nelle ovaie, le cellule staminali germinali e quelle di scorta, non producono integrine di ancoraggio. E' dunque l'interazione fra laminina A e integrine ad assicurare che le cellule staminali rimangano in sede, mostrando che le FSC concorrono alla definizione del proprio ambiente.

Federico Cesareo

lunedì 25 agosto 2008

La genetica

La genetica occupa una posizione importante per quanto comprende problemi dell'uomo e la misura di questo è data dalla quantità di denaro che la societa' puo' spendere per la ricerca genetica.
La societa' raramente finanzia con miliardi di euro singoli progetti biologici, ma ben 3 miliardi sono impegnati per finanziare il sequenziamento completo del genoma umano.Il progetto puo' essere attuato con l'aiuto internazionale che si puo' dare con il coinvolgimento di numerosi laboratori di tutto il momdo.
I potenziali benefici per la scienza sono immensi.
Ma forse la prospettiva piu' stimolante è la possibilita' di generare nel grande progetto internazionale di genetica quella che senza dubbio è la struttura piu' complessa dell'universo stesso l'HOMO SAPIENS.
La genetica influenza la vita del mondo.
Ognuno di noi sviluppa nel tempo la sua visione personale dell'universo e del suo ruolo all'interno dello stesso.
Questa visione del mondo determina , secondo me, il nostro modo di pensare e di agire definendo la nostra personalità e di conseguenza, la societa' in cui viviamo.Dobbiamo pero' essere capaci di adeguare le nostre conoscenze nel mondo, e se necessario, cambiare drasticamente in modo da poterle accettare.
L'ignoranza o il rifiuto di nuove scoperte conduce ad una mentalità ristretta e settaria.Alcuni concetti fondamentali della genetica hanno determinato un cambiamento radicale nell'uomo, rispetto al modo di vedere se' stesso ed al suo rapporto con il resto dell'universo.Gli organismi viventi hanno un sistema di conservazione e di espessione dell'informazione e mostrano una omologia per molte strutture, anche a livello di geni.
Il sapere che esiste una serie continua di relazione all'interno del mondo vivente costituisce un importante concetto che ci unisce al resto degli organismi viventi.
Questa idea sconvolge radicalmente ogni precedente cognizione dell'universo, essa suggerisce una diversa visione, infatti, dell'uomo che non rappresenta piu' l'espressione piu' alta dell'universo o il centro della creazione, ma una forma di vita paragonabile a tutte le altre.
Questi discorsi in realta' sconfinano in altre sfere quali la filosofia e la religione , proprio perche' la genetica ci costringerebbe alla discussione di conoscenze che metterebbero in dubbio il modo di vedere noi stessi.
Alcuni dei maggiori e pressanti problemi sociali hanno indirettamente un'origina genetica .
Si pensi , ad esempio, ad alcuni gravi problemi come il pregiudizio, la sofferenza sociale, per differenze comportamentali tra le razze e tra i sessi.
La genetica offre metodi per affrontare ed analizzare questi problemi complessi ed irrisolti.
Una dell preoccupazioni piu' serie dei genetisti è il tasso allarmante con cui stiamo distruggendo l'ambiente naturale, specialmente ai tropici, che costituisce la piu' vasta riserva di piante ed animali.
Anche questa problematica che va' contro la genetica perche' si pone la necessita' di conservare sia la diversita' genetica che le sue risorse.
Altro problema con forte impatto sociale riguarda la salute delle nostre popolazioni.
Molti genetisti sono preoccupati perche' il Genoma umano è ogni giorno piu' esposto ad agenti ambientali , soprattutto sostanze chimiche e radioattive, che sono in grado di modificare il riassetto genetico in moda del tutto casuale.
La maggior parte di questi cambiamenti è inevitabilmente deleteria per tutto il genere umano e gli esseri viventi. Anche in tempi brevi queste modificazioni genetiche potrebbero non modificare la frequenza di malattie erditarie ed in tempi piu' lunghi, accumulandosi le malattie potrebbero alla fine manifestarsi come "bomba genetica ad orologeria".
Solo attraverso la conoscenza genetica del nostro vivere, secondo me, potremmo nel futuro prendere delle decisioni coscienti per tutti gli esseri viventi della Terra.
Federico Cesareo

lunedì 18 agosto 2008

Come si rimane cellula staminale

Le molecole cruciali per questo cruciale e delicato mantinimento in "stand-by” sono indicate dalle sigle H3K4me3 e H3K27me3, e sono classificate tra le cosiddette modificazioni epigenetiche che influenzano gli schemi di attivazione dei geni PAROLE CHIAVECellule staminaliUna cellula staminale embrionale viene controllata dalla presenza e dell’azione di modificazioni proteiche che silenziano ogni gene che potrebbe prematuramente istruire la cellula a svilupparsi in tessuto cardiaco o in qualunque altro tessuto specializzato. Grazie alla presenza simultanea di diverse modificazioni proteiche, tuttavia, le cellule staminali sono pronte per svilupparsi in cellule specializzate. È quanto riferiscono sulla rivista “Cell - Stem Cell”, i ricercatori di un’ampia collaborazione scientifica tra il Genome Institute of Singapore (GIS), il Bioprocessing Technology Institute (BTI), due strutture che fanno parte dell’Agency for Science, Technology and Research (A*STAR), e la National University of Singapore (NUS).Le molecole che garantiscono questo cruciale e delicato mantenimento in “stand-by” sono indicate dalle sigle H3K4me3 e H3K27me3, e sono classificate tra le cosiddette modificazioni epigenetiche che influenzano gli schemi di attivazione dei geni, sia nelle cellule staminali embrionali umane sia in quelle mature.Gli scienziati, inoltre, hanno anche scoperto che i geni modificati soltanto da uno dei marker, e più precisamente l’H3K4me3, contengono le istruzioni genetiche per le proteine che permettono alle cellule staminali embrionali di proliferare o duplicarsi. Nell’articolo pubblicato su “Cell-Stem Cell”, gli autori puntualizzano che: “la prevalenza di questi geni può essere collegata alle prorietà di autorigenerazione delle cellule staminali”. Determinare in che modo le cellule staminali embrionali vengano modificate da questi marker epigenetici potrebbe aiutare a spiegare le caratteristiche uniche di tali cellule, cioè la capacità di autorinnovarsi e la pluripotenza.
Federico Cesareo

mercoledì 6 agosto 2008

La cooperazione retrovirale

La scoperta di questo nuovo "trucco" usato dall'Hiv per sopravvivere suggerisce che in un organismo infettato possano esserci molti più viirus attivi di quanto pensato PAROLE CHIAVEHivreplicazione viraleUna nuova modalità di replicazione del retrovirus del'Hiv è stata scoperta da ricercatori della New York University, che illustrano la loro scoperta in un articolo pubblicato sulla rivista Retrovirology. Si sa che in media solamente un virus dell'Hiv su cento riesce a completare con successo il processo di integrazione del proprio materiale genetico in quello della cellula ospite, compiendo un passo essenziale per potersi riprodurre. Ma ora uno studio condotta da un gruppo di ricercatori diretti da David N. Levy ha messo in evidenza l'esistenza di un meccanismo cooperativo che consente di replicarsi anche ad alcuni dei restanti 99 virus, che hanno quindi una loro parte nello sviluppo dell'Aids. Secondo Levy, l'Hiv funziona quasi come una comunità, nella quale i virus che riescono a integrarsi nel DNA della cellula aiutano quelli meno efficienti rifornendoli delle proteine che sono loro necessarie per riprodursi.Questi virus, che finora si riteneva andassero "perduti" e non avessero alcuna influenza sullo sviluppo della malattia proprio a causa della mancata integrazione, possono in realtà risultare addirittura avvantaggiati rispetto agli altri perché, saltando alcuni passi del processo di replicazione, si riproducono più velocemente. "La cooperazione fra differenti virus è un altro dei trucchi usati dall'Hiv per sopravvivere e apre la possibilità al fatto che nel corpo ci siano molti più viirus attivi di quanto si pensasse. La comprensione di come interagiscono gli uni con gli altri è una delle chiavi per la comprensione di come l'Hiv evolve e sopravvive alla risposta immunitaria, e speriamo che ci porti alla fine anche a sviluppare nuovi modi per trattare l'infezione",Federico Cesareo

I linfociti traditori fanno i conti con le molecole

Un tipo di linfociti, i T regolatori, aiutano il tumore a sopravvivere invece di distruggerlo. Ora si è scoperto che una molecola chiamata OX40 è in grado di renderli innocuiUna promettente novità per l’immunoterapia del futuro: così sono stati definiti i risultati del lavoro pubblicato da Silvia Piconese del Dipartimento di oncologia sperimentale dell’Istituto nazionale tumori di Milano.Utilizzare il sistema immunitario del paziente contro il cancro, visto come un agente esterno da eliminare, è il principio alla base dell’immunoterapia che si è rivelata uno strumento utile per la cura di diversi tipi di tumore. Nonostante i buoni risultati già ottenuti, ci sono ancora molti ostacoli che impediscono di raggiungere una piena efficacia di queste terapie, primo tra tutti la complessità della risposta immunitaria e le interazioni tra i molti tipi di cellule che compongono il sistema immunitario.Piconese e colleghi hanno studiato un particolare tipo di cellula, i linfociti T regolatori (T reg), considerata il maggiore ostacolo al successo dell’immunoterapia.
Federico Cesareo

martedì 13 maggio 2008

Una nuova tecnica per sequenziare il DNA

La nuova metodologia produce risultati molto simili alle tecniche convenzionali, ma con un costo inferiore e con una risoluzione potenzialmente più alta
Nell’ambito di una collaborazione internazionale, ricercatori statunitensi e svizzeri hanno sviluppato strumenti matematici e statistici per ricostruire popolazioni virali, utilizzando il pirosequenziamento, una nuova tecnica per il sequenziamento del DNA. Lo riferisce l’ultimo numero della rivista on line ad accesso libero “PLoS Computational Biology”.
Finora era noto come le letture frutto del pirosequenziamento fossero brevi e afflitte da frequenti errori, e gli scienziati hanno cercato di migliorarlo per molto tempo. Ora il nuovo processo sviluppato presso l’ETH di Zurigo ha dimostrato di poter diminuire il tasso di errore e di fornire informazioni in modo più veloce ed efficiente.
Il metodo è stato applicato a quattro popolazioni di HIV-1 ottenute da pazienti resistenti ai farmaci, che sono poi state confrontate con 165 sequenze ottenute direttamente mediante sequenziamento, per esempio per clonazione dagli stessi campioni. “Queste nuove tecniche producono risultati molto simili alle tecniche convenzionali, ma con un costo inferiore e con una risoluzione potenzialmente più alta”, ha spiegato Niko Beerenwinkel dell’ETH, che ha partecipato allo studio.La conoscenza della struttura genetica delle popolazioni virali è critica per proseguire la ricerca biomedica sulla progressione della malattia, sulla progettazione di vaccini e sulla resistenza ai farmaci. L’abilità di stimare la struttura delle popolazioni virali mantiene la grande promessa di una nuova e più profonda comprensione dell’evoluzione virale e del controllo delle malattie. Federico Cesareo

martedì 8 aprile 2008

La mononucleosi

La mononucleosi, che ha come sintomi prevalenti stanchezza e aumento dei globuli bianchi, è una malattia infettiva non sempre facile da diagnosticare. Si trasmette soprattutto fra i giovani, abitualmente attraverso la saliva; per questo motivo è conosciuta anche come kissing desease o "malattia del bacio".

La mononucleosi è causata da un virus chiamato EBV (Epstein-Barr Virus), appartenente alla famiglia degli herpes virus, la stessa di varicella e fuoco di Sant'Antonio.

Sintomi
I sintomi principali della mononucleosi sono simili a quelli di un comune malanno invernale e comprendono febbre, debolezza, senso di malessere generale ed ingrossamento dei linfonodi. Il periodo di incubazione è piuttosto lungo e variabile dai 30 ai 50 giorni. Generalmente è inferiore nei bambini.

L'esordio clinico è spesso preceduto da una fase, detta prodromica, in cui la sintomatologia è di carattere generale e non particolarmente preoccupante (modesta cefalea, febbricola, anoressia, dolori muscolari diffusi, sudorazione ecc.). Se il virus prende il sopravvento sul sistema immunitario, la mononucleosi vera e propria esordisce con una fenomenologia più specifica, i cui elementi principali sono rappresentati da febbre, faringite (mal di gola, difficoltà nella deglutizione, possibile disidratazione) e linfoadenomegalia. Dopo alcuni giorni si assiste alla comparsa di un rilevante numero di cellule linfocitarie atipiche nel sangue. L'astenia (debolezza) è un altro sintomo spesso rilevante, che in alcuni casi perdura per svariate settimane.

Altri sintomi della mononucleosi comprendono: splenomegalia (ingrossamento della milza) ed orticaria. Spesso è presente anche una sofferenza epatica, evidenziabile attraverso esami sierologici.

La mononucleosi può causare delle complicanze, fortunatamente piuttosto rare, a carico del sistema nervoso centrale, periferico e vascolare (anemia emolitica e piastrinopenia). Possibile anche il coinvolgimento di cuore e polmoni.

In alcuni casi la malattia si manifesta in maniera subdola, con poca febbre ed un senso generale di malessere e stanchezza, che può perdurare anche per diversi mesi. Dopo l'iniziale contagio, l'Epstein-Barr virus rimane infatti silente, in attesa che le difese immunitarie si abbassino. La sua successiva riattivazione è implicata nella sindrome da stanchezza cronica.

L'infezione persistente da EBV è stata recentemente messa in relazione anche con l'insorgenza del linfoma di Burkitt e di altre malattie tumorali. Se il contagio avviene durante l'infanzia, la momonucleosi è solitamente caratterizzata da sintomi lievi, non specifici o da nessun sintomo.

Contagiosità
La mononucleosi è una malattia a contagiosità modesta, che colpisce preferenzialmente soggetti di età compresa fra i 15 ed i 25 anni. Diffusa un po' in tutto il mondo, interessa entro l'adolescenza il 50% degli individui che vivono nei Paesi industrializzati, mentre compare più precocemente in quelli in via di sviluppo. Considerato il basso tasso di contagiosità, la mononucleosi può causare piccole epidemie soltanto in particolari condizioni (stretto contatto con soggetti affetti, sovraffollamento e cattive condizioni igieniche).

Secondo recenti stime, nel corso della propria vita circa il 90% della popolazione adulta, senza particolare predilezione di sesso, è venuta in contatto con l'Epstein-Barr virus. La maggior parte di queste persone ha sviluppato anticorpi specifici senza aver mai accusato alcun segno di infezione. La mononucleosi dà segni di sé soltanto quando colpisce soggetti debilitati, con un sistema immunitario compromesso.

Il contagio può essere diretto ed avvenire tramite saliva (via oro-faringea), rapporto sessuale o trasfusioni di sangue ed emoderivati, oppure indiretto, per esempio tramite l'utilizzo comune di oggetti contaminati quali posate, bicchieri, piatti e giocattoli.

La contagiosità può permanere per molto tempo, poiché l'eliminazione faringea del virus persiste fino ad un anno dopo l'infezione. Bisogna inoltre considerare che, durante i periodi di riattivazione del virus, gli stessi portatori sani possono diventare fonte di contagio. In ogni caso se si è già stati infettati una volta, ogni successivo contatto con una persona affetta da mononucleosi sarà privo di conseguenze. La malattia non costituisce un pericolo nemmeno per le gestanti e non esiste, tuttora, alcuna relazione certa tra mononucleosi ed aborti o malformazioni fetali.

Diagnosi
L'infezione acuta da mononucleosi è diagnosticata clinicamente dal contemporaneo manifestarsi di febbre, ingrossamento dei linfonodi e mal di gola. La diagnosi definitiva si raggiunge soltanto mediante la constatazione della presenza di linfociti caratteristici nel sangue. Gli stessi sono però riscontrabili anche nel corso di altre malattie, come l'epatite virale, la malattia da citomegalovirus e la rosolia. Tuttavia, mentre in queste condizioni la percentuale di linfociti anomali è nettamente inferiore al 10%, in caso di mononucleosi la quota di cellule linfocitarie atipiche non scende al di sotto di tale valore. In ogni caso per differenziare la malattia dalle sindromi similmononucleosiche precedentemente elencate, esistono esami immunologici specifici.

Cura e terapie
Nella maggior parte dei casi la mononucleosi si risolve positivamente entro due o tre settimane. Raramente si hanno ricadute croniche negli anni a venire, anche se alcuni pazienti tendono comunque ad accusare stanchezza e difficoltà di concentrazione per diversi mesi. Dopo la guarigione, l'EBV rimane infatti latente nel tessuto linfoghiandolare e può riattivarsi dando luogo alla cosiddetta "sindrome da fatica cronica", uno stato di debilitazione generale che può perdurare diversi mesi, sottraendo al soggetto energie fisiche e mentali (si noti l'analogia con l'herpes simplex e zoster, responsabili, rispettivamente, dell'herpes labiale/genitale e della varicella/fuoco di Sant'Antonio). Per prevenire il riattivarsi del virus è importante mantenere l'efficienza del sistema immunitario con uno stile di vita attivo, privo di eccessivi stress e basato su una sana alimentazione.

Il paziente colpito da mononucleosi dovrebbe riposare a letto ed evitare sforzi fisici per almeno un mese, specie se sussiste splenomegalia. La rottura della milza per traumi addominali è infatti una complicanza rara ma temibilissima. Le categorie a maggior rischio sono i bambini e gli sportivi, che dovrebbero astenersi dagli sforzi anche per qualche settimana dopo la remissione clinica. Se durante l'attività, dopo energica palpazione, o in seguito ad un incidente, dovessero insorgere dolori diffusi alla parte superiore sinistra dell'addome, è bene richiedere l'intervento immediato dei soccorsi sanitari.

La terapia farmacologica della mononucleosi si basa sulla somministrazione di analgesici (acetaminofene, ibuprofene) ed antipiretici (escluso l'acido acetilsalicilico che può causare una grave complicanza chiamata sindrome di Reye).

Soltanto nei casi più gravi è previsto il ricorso, per alcuni giorni, ai farmaci corticosteroidei. Nel caso fallissero anche questi medicinali, la cura della mononucleosi si può avvalere delle IgG (immunoglubuline).

Federico Cesareo

lunedì 7 aprile 2008

Combattere il colesterolo e' necessario

Combattere il colesterolo e' necessario per debellare patologie ad esso associate.E’ un grasso; importante costituente delle cellule dell’organismo. Può avere origine dal cibo (latte e derivati, carne, uova ecc.), ma la maggior parte è fabbricata dal fegato a partire da una vasta gamma di sostanze. La ricerca di questa sostanza nel sangue concorre, con la ricerca dei trigliceridi, a valutare i grassi nell’organismo. Può essere eliminato (tramite la sintesi degli acidi biliari) per via epatica (fegato) o per via intestinale. Viene differenziato in due gruppi:Colesterolo "buono" o HDL perchè se la maggiore parte del colesterolo presente nel sangue è sottoforma di lipoproteine a elevata densità (High Density Lipoproteins, HLD) sembra avere un effetto protettivo nei confronti della malattia arteriosa, perchè le molecole HDL hanno una struttura molto grande e tali dimensioni consentono loro di "spazzare" fisicamente le arterie e di ripulirle dai depositi arteriosclerotici; inoltre le HDL hanno la funzione di riportare il colesterolo nel fegato, quindi di sottrarlo al sangue; quindi il colesterolo HDL è molto utile ed è importante che il suo livello sia alto, maggiore di 35 mg/dl; una persona che ha un colesterolo totale alto ma un HDL a un livello maggiore di 35 non è a rischio, quanto una persona che insieme a un colesterolo totale alto, presenta un livello di HDL basso, inferiore a 35.Colesterolo "cattivo" o LDL perchè se la maggiore parte del colesterolo è sottoforma di lipoproteine a bassa densità (Low Density Lipoproteins, Ldl) aumenta il rischio di sviluppo di aterosclerosi. Il colesterolo è una sostanza essenziale, che rappresenta la base chimica per la sintesi di alcuni ormoni ed entra in gioco anche come "mattone" nella formazione di tutte le membrane delle cellule. Sono considerati valori normali 120 - 220 mg/100 ml per il colesterolo totale, 40 - 80 mg/100 ml per l’HDL, 70 - 180 mg/100 ml per l’LDL.Valori superiori a quelli considerati normali possono essere causati da diabete, da epatite cronica, da uso di contraccettivi, da intossicazione, da ipoproteinemie, da ipotiroidismo, da lupus eritematoso, da morbo di Cushing, da obesità, da pancreatite acuta, da sindrome nefrosica.Valori inferiori a quelli considerati normali possono essere causati da anemie croniche, da epatopatie terminali, da ipertiroidismo, da morbo di Addison, da malnutrizione, da sepsi, da malassorbimento, da malattie neoplastiche. Federico Cesareo

domenica 30 marzo 2008

Il gene salterino e molto egoista

Infiltrato all'interno di un altro gene, la sua azione diventa devastante quando quest'ultimo perde funzionalità Una proteina che contribuisce in modo critico all'insorgere della sindrome di Cockayne, una patologia devastante caratterizzata da difetti di sviluppo, neuro-degenerazione e invecchiamento precoce è stata individuata da un gruppo di ricercatori dell'Università di Washington, che ne riferisce in un articolo pubblicato su PLoS Genetics. Da tempo si sa che difetti in alcuni fattori di riparazione del DNA, come la proteina CSB, provocano un invecchiamento precoce per ragioni ancora non chiarite. La maggior parte dei casi di sindrome di Cockayne sono dovuti a mutazioni recessive nel gene CSB, ma alcuni soggetti che sono portatori di mutazioni che causano la perdita completa della proteina CSB sono quasi sani, un fatto che indica come la semplice perdita della funzionalità della proteina CSB non sia la sola causa della malattia.Mentre i ricercatori diretti da Alan Weiner e John Newman stavano studiando la funzionalità di un gene normale per la proteina CSB si sono accorti che esso contiene un ospite inaspettato.Si tratta del trasposone "addomesticato" PiggyBac, un gene capace di saltare da una posizione all'altra che si è installato all'interno del gene CSB circa 40 milioni di anni fa.In seguito a ciò, il gene CSB ha iniziato a produrre sia la normale proteina CSB sia una proteina di fusione nella quale la parte iniziale della proteina CSB è fusa con la trasposasi (enzima che taglia il DNA e lo sposta in una diversa posizione) codificata da PiggyBac. La proteina di fusione continua a venire prodotta in quasi tutti i pazienti affetti da sindrome di Cockayne, mentre ciò non avviene nei soggetti che pur avendo perso la proteina CSB funzionale non soffrono della patologia. Evidentemente, osservano i ricercatori, la conservazione della proteina di fusione è vantaggiosa per la specie umana in presenza della proteina CSB, ma potenzialmente devastante quando questa è assente.
ROMA 27/03/2008
FEDERICO CESAREO

mercoledì 27 febbraio 2008

Alla scoperta del DNA

ALLA SCOPERTA DEL DNA
LA NATURA DEL DNA Il DNA era stato isolato per la prima volta dal medico tedesco Friedrick Miescher nel 1869, nello stesso importante decennio in cui Darwin pubblicava L'Origine delle Specie e Mendel comunicava i suoi risultati alla Società di Storia Naturale di Brùnn. La sostanza isolata da Miescher era bianca, zuccherina, leggermente acida e conteneva fosforo. Poiché era stata trovata soltanto nei nuclei delle cellule, venne chiamata acido nucleico. Tale nome fu in seguito modificato in acido deossiribonucleico (DNA) per distinguere questa sostanza da una simile, l'acido ribonucleico (RNA). Ogni nucleotide è formato da una base azotata, dallo zucchero deossiribosio e da una base azotate e un gruppo fosfato. Vi sono due tipi di basi azotate: le purine, che presentano una struttura a due anelli e le pirimidine che hanno un solo anello. Nel DNA vi sono due tipi di purine, l'adenina (A) e la guanina (G) e due tipi di pirimidine, la citosina (C) e la timina (T). Così il DNA è costituito da quattro tipi di nucleotidi che differiscono soltanto per tipo di purine o di pirimidine contenenti azoto.
Gli esperimenti sui batteriofagi Nel 1940 ebbe inizio una serie di esperimenti fondamentali che utilizzavano un altro «materiale adatto», destinato a diventare tanto importante nella ricerca quanto la pianta di pisello e il moscerino della frutta. Tale materiale era un gruppo di virus che attaccano i batteri e sono pertanto detti batteriofagi. («mangiatori di batteri»). I batteriofagi scelti inizialmente per questi studi furono quelli che attaccano Escherichia coli uno tra i più comuni batteri dell'intestino umano. L'analisi clinica dei batteriofagi rivelò che essi sono costituiti quasi esclusivamente da DNA e proteine, le due sostanze che negli anni '40 erano i principali concorrenti al ruolo di materiale genetico. La questione su quale dei due tipi di molecola contenga i geni virali, cioè il materiale ereditario che dirige la sintesi di nuovi virus all'interno della cellula batterica, fu risolta nel 1952 da Alfred D. Hershey e da Martha Chase. Osservando la figura tenete presente che, mentre le proteine contengono zolfo (negli amminoacidi metionina e cisteina), ma non fosforo, il DNA contiene fosforo ma non zolfo. Grazie a questi esperimenti è stato possibile dimostrare che solamente il DNA dei batteriofagi era coinvolto nel processo di duplicazione e che le proteine non potevano costituire il materiale genetico.
MODELLO WATSON-CRICK Nel 1953 lo scienziato americano James Watson ed il fisico francese Francis Crick proposero un modello di struttura per il DNA; essi non eseguirono veri e propri esperimenti, ma intrapresero, piuttosto, un esame razionale di tutti i dati allora noti sul DNA, cercando di organizzarli in modo logico. Secondo il loro modello la molecola di DNA è un'elica a filamento doppio, dalla forma di una scala a spirale. I due «montanti» della scala sono costituiti da subunità ripetute di un gruppo fosfato e dello zucchero deossiribosio a 5 atomi di carbonio. I «pioli» sono costituiti da basi azotate appaiate (una purina si appaia con una pirimidina); A può appaiarsi solo con T e G solo con C, e si chiamano complementari. Le quattro basi sono le quattro «lettere» usate per scandire il messaggio genetico. Le basi appaiate sono unite da legami a idrogeno. Duplicazione Quando la molecola di DNA si duplica, i due filamenti si separano in seguito alla rottura dei legami a idrogeno. Ogni filamento si comporta come uno stampo per la formazione di un nuovo filamento complementare, utilizzando i nucleotidi disponibili nella cellula. L'aggiunta di nucleotidi al nuovo filamento è catalizzata dagli enzimi DNA-polimerasi. Nel processo di duplicazione molti altri enzimi giocano un ruolo importante. La duplicazione del DNA inizia a livello di una particolare sequenza di nucleotidi sul cromosoma, che è il punto d'origine della duplicazione. Questa procede in entrambe le direzioni, per mezzo delle due forcelle di duplicazione che si spostano nelle due direzioni opposte. Durante la duplicazione del DNA avviene l'azione proofreading delle DNA-polimerasi, che fanno invertire la direzione di marcia quando si rende necessario rimuovere quei nucleotidi che non si sono appaiati in modo corretto a quelli del filamento stampo. Grazie alle deduzioni sulla struttura a doppia elica del DNA elaborate da Watson e Crick, venne universalmente accettato il ruolo del DNA come la molecola che porta a trasmettere le informazioni genetiche. Con la scoperta del complesso ed estremamente preciso meccanismo mediante il quale le cellule duplicano il loro DNA era finalmente risolto il problema di come l'informazione ereditaria venga fedelmente trasmessa da una cellula madre alla cellula figlia, generazione dopo generazione.

Federico Cesareo

venerdì 22 febbraio 2008

Nuovo attore nel sistema immunitario

Akirin svolge un ruolo importante nell’innesco della risposta immunitaria innataUn gruppo internazionale di scienziati ha scoperto un nuovo attore nel sistema immunitario di moscerini della frutta, topi ed esseri umani. La molecola, che è stata chiamata Akirin (termine giapponese che significa «fare chiarezza»), svolge un ruolo importante nell’innesco della risposta immunitaria innata.Gli scienziati, di Francia, Germania e Giappone, hanno pubblicato le loro conclusioni sulla rivista «Nature Immunology».Il sistema immunitario innato è presente in tutti gli animali. Quando i recettori che si trovano sulla superficie delle cellule riconoscono un invasore, inviano un messaggio all’interno della cellula, che quindi rilascia proteine immunologicamente attive. Il sistema immunitario innato non è cambiato molto nel corso dell’evoluzione e molte delle molecole presenti nel sistema immunitario innato del moscerino della frutta si trovano anche nell’uomo.I vertebrati hanno anche un sistema immunitario acquisito. Questo ulteriore strato di difesa è costituito da antigeni che permettono all’organismo di «ricordare» i patogeni che ha incontrato.Se un patogeno cerca di infettare nuovamente l’organismo, questi antigeni «mnemonici» sono in grado di attivare una risposta rapida ed efficace.I moscerini della frutta sono privi di un sistema immunitario acquisito e, pertanto, vengono utilizzati spesso per studiare il sistema immunitario innato. Nei moscerini della frutta sono due i percorsi di segnalazione che possono essere innescati quando il sistema immunitario individua un invasore. Il nome di uno di essi è «Imd» (che sta per immunodeficienza) e, benché sia stato scoperto oltre 10 anni fa, non è ancora del tutto chiaro.In quest’ultimo studio gli scienziati hanno utilizzato l’interferenza dell’RNA (RNAi) per disattivare singole molecole lungo il percorso. Questo esperimento ha portato alla scoperta di una molecola precedentemente sconosciuta, che è stata battezzata Akirin.Quando Akirin è stata disattivata nelle cellule immunitarie dei moscerini, questi ultimi sono diventati molto più suscettibili alle infezioni batteriche. Bloccando la molecola nell’intero organismo, i moscerini morivano prima nella fase larvale.Da studi ulteriori è emerso che, nei topi, Akirin svolge un ruolo analogo a quello osservato nei moscerini. Inoltre, quando è stata prodotta la versione umana di Akirin in moscerini in cui questa stessa molecola era stata disattivata, la risposta immunitaria innata è stata ripristinata.Un giorno questi risultati potrebbero portare allo sviluppo di nuove cure per il cancro. «Il cosiddetto percorso di segnalazione NF-fÛB svolge un ruolo importante nelle infiammazioni, e le infiammazioni sono determinanti nello sviluppo del cancro», ha spiegato Michael Boutros del Deutsches Krebsforschungszentrum (DKFZ, Centro tedesco per la ricerca sul cancro) uno degli autori del documento. «Pertanto, la ricerca di piccole molecole in grado di inibire questo percorso di segnalazione prosegue.»Farmaci volti a bloccare altri anelli della catena di segnalazione vengono già testati in sperimentazioni cliniche. «Quanti più anelli della catena conosciamo, tante più possibilità abbiamo di interferire con essa», ha dichiarato il dottor Boutros. Federico Cesareo

martedì 19 febbraio 2008

Plasmidi come vettori di clonaggio

Abbiamo già discusso alcuni dettagli relativi ai plasmidi. Essi hanno proprietà molto utili per il clonaggio. Queste proprietà includono:
(1) dimensioni ridotte che facilitano l'isolamento e la manipolazione del DNA;
(2) forma circolare che rende il DNA più stabile durante l'isolamento;
(3) origine di replicazione indipendente, in modo tale che la replicazione del plasmide nella cellula proceda indipendentemente dal controllo diretto del cromosoma;
(4) elevato numero di copie nella cellula che rende possibile l'amplificazione del DNA;
(5) presenza di marcatori selezionabili, quali la resistenza ad antibiotici, che semplificano l'identificazione e l'isolamento dei cloni contenenti plasmidi.

Sebbene in condizioni naturali i plasmidi coniugativi siano generalmente trasferiti attraverso il contatto tra le cellule, i vettori di clonaggio vengono spesso modificati, per ragioni di sicurezza, per prevenire il loro trasferimento mediante coniugazione. Infatti, in laboratorio, l'introduzione di un vettore in un ospite può essere effettuato mediante trasformazione. A seconda del sistema ospite‑plasmide, la replicazione del plasmide può avvenire sotto stretto controllo cellulare, nel qual caso le copie prodotte sono poche, oppure con un controllo cellulare più blando e la produzione di un numero elevato di copie. Spesso in un clonaggio genico è importante avere un alto numero di copie; attraverso un`appropriata scelta del sistema ospite‑plasmide e l'alterazione della sintesi delle macromolecole cellulari è possibile ottenere diverse migliaia di plasmidi per cellula.

Il plasmide pBR322 è un esempio di un vettore di clonaggio molto usato, in grado di replicarsi In Escherichia coli. Il plasmide pBR322 ha diverse caratteristiche che lo rendono utile come vettore di clonaggio:

I. E` relativamente piccolo, solo 4361 paia di basi.

2. Si mantiene stabilmente nel suo ospite (Escherichia coli) ad un numero relativamente alto di copie per cellula (20‑30).

3. Può essere amplificato fino ad un numero elevato (1000‑3000 copie per cellula, circa il 40% del genoma!) mediante l'aggiunta di cloramfenicolo, che inibisce la sintesi proteica.

4. E` facile da isolare in forma superavvolta mediante diverse tecniche semplici .

5. E` possibile l'inserimento di una discreta quantità di DNA, nonostante che inserti superiori alle 10 chilobasi portino alla instabilità plasmidica.

6. Essendo nota l'intera sequenza delle basi di questo plasmide, è possibile localizzare i siti riconosciuti da enzimi di restrizione.

7. Sono presenti siti unici per diversi enzimi di restrizione come PstI, SalI, EcoRI, HindIII, BamHI e molti altri. Il sito EcoRI è localizzato tra i geni che codificano per la resistenza agli antibiotici presenti sul plasmide. È importante la presenza di un sito unico per almeno un enzima di restrizione, in modo tale che il trattamento con quell'enzima linearizzi il plasmide, senza frammentarlo.

8. Sono presenti due marcatori di resistenza agli antibiotici, ampicillina e tetraciclina che permettono una facile selezione delle cellule ospiti contenenti il plasmide.

9. Può essere facilmente introdotto nelle cellule mediante la trasformazione. Come abbiamo visto, il sito BamHI è all'interno del gene per la resistenza alla tetraciclina e il sito PstI in quello per la resistenza all'ampicillina. Se un frammento di DNA esogeno viene inserito in uno di questi siti, la resistenza all'antibiotico conferita dal gene localizzato in quel punto viene persa con un fenomeno detto inattivazione inserzionale. Questa inattivazione è utilizzata per identificare la presenza di DNA esogeno nel plasmide. Quindi, se pBR322 viene digerito con BamHI, legato al DNA da inserire e successivamente vengono isolati i cloni batterici trasformati, i cloni selezionati che risultano resistenti sia all'ampicillina che alla tetraciclina sono quelli che non hanno inserito il DNA esogeno (il plasmide incorporato nella cellula è il vettore che si è richiuso senza introduzione di DNA esogeno). Al contrario, quelle cellule che sono ancora resistenti all'ampicillina, ma sensibili alla tetraciclina, contengono il plasmide nel quale si è inserito DNA esogeno. Poiché la resistenza a questi due antibiotici può essere valutata su piastre di terreno agarizzato, è possibile individuare facilmente i batteri contenenti il clone desiderato ed eliminare le cellule che non contengono il plasmide.

I primi vettori di clonaggio utilizzati sono stati i plasmidi presenti in natura. Il plasmide pBR322 rappresenta una generazione più recente di vettori di clonaggio, costruiti in vitro. Il gene per la resistenza alla tetraciclina in pBR322 deriva da un plasmide, l'origine di replicazione da un altro e il gene per la resistenza all'ampicillina dal trasposone Tn3. Sono ora disponibili nuove generazioni di vettori plasmidici costruiti con caratteristiche utili e di facile impiego. Queste nuove caratteristiche includono quasi sempre un "polylinker" (o sito di clonaggio multiplo), un breve segmento di DNA con molti siti di restrizione unici. Questo "polylinker" è generalmente contenuto nella regione codificante di un gene la cui inattivazione inserzionale può essere facilmente identificata. Queste caratteristiche si ritrovano anche nei vettori fagici.

Il clonaggio in un plasmide come pBR322 è una procedura versatile e abbastanza generale, di uso diffuso in ingegneria genetica, in particolare quando il frammento che deve essere clonato è abbastanza piccolo. I plasmidi sono i vettori migliori quando si desidera l'espressione del gene che si è clonato. Federico Cesareo

venerdì 15 febbraio 2008

Embrioni con materiale genetico per eliminare malattie

Embrione con materiale genetico da tre 'genitori' per eliminare malattie. Proteste dagli integralisti cattoliciSono gia' 10 gli embrioni umani con tre 'genitori' creati nei laboratori dell'Universita' britannica di Newcastle. Ognuno, infatti, contiene il Dna di un uomo e due donne. L'obiettivo, spiegano i ricercatori dell'ateneo autori della ricerca shock, e' quello di arrivare, grazie agli embrioni con due mamme e un papa', a un bebe' 'disease-free', cioe' a prova di malattie ereditarie. Un piccolo geneticamente modificato che, secondo l'annuncio degli scienziati, potrebbe nascere in Gran Bretagna entro tre anni.Gli speciali embrioni, riferisce il quotidiano 'Daily Mail', sono stati ottenuti con la speranza di arrivare alla cura di gravi malattie ereditarie, inclusa la distrofia muscolare e l'epilessia. Il team di Dug Turnbull spera di combinare le tecniche di fecondazione in vitro con la chirurgia cellulare per eliminare malattie causate da difetti del mitocondrio, la centrale energetica della cellula.Il Dna mitocondriale danneggiato passa da madre a figlio, ed e' all'origine di una cinquantina di gravi patologie. Si tratta di un problema che tocca una persona su 6.500. Il team ha sviluppato un 'trapianto mitocondriale': per prima cosa una coppia ricorre alla fecondazione assistita per creare un ovulo fertilizzato; a un giorno di vita, poi, il Dna del nucleo viene rimosso e posto nell'ovulo di una donatrice con mitocondri non danneggiati.Il bimbo che si sviluppera' dovrebbe avere il Dna nucleare di madre e padre e il Dna mitocondriale sano dalla donatrice: dunque avrebbe in effetti tre 'genitori'. Il team di Newcastle ha presentato il lavoro preliminare al Medical Research Council Centre for Neuromuscolar Disease a Londra la scorsa settimana. La tecnica, hanno spiegato i ricercatori, ha funzionato in esperimenti con embrioni anomali ottenuti con trattamenti di fecondazione assistita e mai utilizzati.In 10 embrioni monocellulari i trapianti sono stati eseguiti con successo, e gli embrioni si sono sviluppati per cinque giorni. "Speriamo di realizzare questa tecnica nei prossimi tre anni", ha detto Turnbull. Un emendamento all'Human Fertilisation and Embriology Bill britannico e' stato presentato alla Camera dei Lord proprio per permettere l'impiego di questa tecnica, ma solo dopo un pronunciamento dell'Human Fertilisation and Embriology Autority.Il governo, pero', ha rigettato l'emendamento nei giorni scorsi, assicurando al contempo a Lord Walton of Detchant, che aveva presentato l'emendamento, che il tema verra' presto dibattuto. Gli scienziati, da parte loro, ribadiscono che il metodo di Newcastle non prevede il ricorso alla clonazione. In ogni caso gli attivisti dei movimenti per la vita britannici si sono scagliati contro la ricerca, definita da Josephine Quintavalle di Comment on Reproductive Ethics come "assolutamente terrificante. Stanno facendo esperimenti con esseri umani", ha protestato la Quintavalle.COMMENTI Un embrione con tre genitori come possibile soluzione ad alcune malattie ereditarie? La tecnica in sperimentazione in Gran Bretagna lascia 'perplesso' il vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica (Cnb) Lorenzo D'Avack. Per una ragione soprattutto: al di la' di ogni altra considerazione, afferma l'esperto, il 'vero problema e' che si mette fortemente in discussione l'identita' stessa del nascituro'. Queste tecniche all'avanguardia, rileva D'Avack, 'possono essere giudicate da vari punti di vista: si possono ad esempio criticare poiche', secondo la visione di alcuni, determinano un sempre maggiore allontanamento dalla procreazione naturale; ma si possono anche apprezzare poiche', sottolineano altri, consentono di mettere al mondo bambini non affetti da determinate patologie'. Punti di vista a parte, resta pero' un fatto: 'e cioe' - commenta D'Avack - che il bambino che nasce con l'utilizzo di tali tecniche, come appunto quella che prevede genitori 'multipli', ha una identita' che risulta fortemente messa in discussione'. In altre parole, secondo l'esperto, la presenza di genitori multipli 'cancellerebbe' l'identita' del nascituro: 'Quali origini gli verrebbero descritte? E poi - si chiede - la societa' e' davvero pronta a simili scenari, se ancora oggi la stessa adozione continua a creare, in alcuni casi, gravi problemi appunto di identita'?'.Insomma, l'impressione, e' il commento del vicepresidente Cnb, e' che 'si stia superando ogni confine, con delle prospettive molto preoccupanti'. Infatti, argomenta, 'il punto non e' se essere o meno d'accordo con le nuove tecniche; il punto e' che, in ogni caso, e' molto grave il fatto che non si tenga conto dell'interesse del nascituro. E l'interesse primario di un bambino che nasce.Federico Cesareo

giovedì 14 febbraio 2008

Lo stesso difetto genetico dietro tutti i tipi di tumore

Molti i killer, ma il mandante è uno solo. Dietro i tumori al seno, alla prostata, al polmone, al colon e a quasi tutti gli altri tipi più letali c'è lo stesso difetto genetico. E' questo, da solo, a mandare il segnale che scatena la maggior parte dei tumori. E' questo su cui ora si può finalmente lavorare per trovare il farmaco che li combatte o, si spera, li blocchi. L'identità del mandante e dove si trova sono descritti in tre ricerche pubblicate nello stesso numero (evento eccezionale) di Cell, il testo sacro della biomedicina. Provengono dal laboratorio di ricerca di base del Memorial Sloan Kettering Cancer Institute di New York, diretto da Pier Paolo Pandolfi. Sono il passo successivo delle ricerche pubblicate sempre su Cell alla fine dell'estate scorsa, con cui era stata ulteriormente svelata la mappa della rete di geni che, a seconda di quelli che entrano in funzione e come interagiscono tra loro, diventa maligna o benigna. In pratica: scatena la moltiplicazione incontrollata della cellula o, al contrario, la blocca. "La scoperta è molto importante", spiega Pandolfi, "soprattutto perché ci da modo di sviluppare finalmente nuovi farmaci antitumorali, basati sulla rete di autodifesa dal cancro estremamente efficace che hanno le nostre cellule, costituita da geni chiamati onco-soppressori perché agiscono come un vero e proprio freno che s'oppone alla proliferazione incontrollata. Quando il freno si guasta, la cellula comincia a moltiplicarsi senza sosta: è il cancro".
Uno di questi freni fondamentali, che blocca il processo tumorale, la proteina chiamata Pten, prodotta dall'omonimo gene, scompare in moltissimi tipi di tumore tra i più diffusi e appartenenti ad organi completamente diversi tra loro come, ad esempio, il cervello, il colon, il seno, la prostata, eccetera. "Ora abbiamo capito e descritto perché questo freno scompare" continua il direttore del laboratorio. "Sorprendentemente sono le cellule stesse che lo mandano a quella sorta di "tritatutto" di cui sono munite". E' un apparato fondamentale per la sopravvivenza della cellula, dove viene distrutto tutto ciò che non serve e che, altrimenti, si accumulerebbe sino a soffocarla. Cosa buttare e cosa invece conservare viene deciso dagli "spazzini molecolari" che appongono marchi diversi alle strutture da eliminare e a quelle da tenere. Il marchio "distruggere" è in pratica un sistema di aggancio al nastro trasportatore diretto al "tritatutto". Il premio Nobel del 2004 è stato dato proprio ai ricercatori che hanno identificato questo processo. "Nelle cellule tumorali la proteina Pten che frena la proliferazione manca perché è stata erroneamente avviata alla distruzione", conclude lo scienziato italiano. "Abbiamo identificato anche il suo marchio "distruggere" che è sempre una proteina. Così ora possiamo bloccare questo processo farmacologicamente, salvando il freno dalla distruzione e riparando la rete che si oppone al tumore. Già è stata avviata la selezione delle molecole che possano inibire il processo di autodistruzione aberrante di Pten. E' una svolta strategica nella ricerca sul cancro di cui vorrei congratularmi con Lloyd Trotman, Xuejun Jiang e tutto il team. Questo è il frutto di oltre quattro anni di duro lavoro da parte di tante persone appassionate". Federico Cesareo

Nuova apparecchiatura per la diagnosi di malattie rare

Nasce un nuovo servizio, unico in Italia, per migliorare le analisi genetiche effettuate nei laboratori sia a scopo di ricerca che di diagnostica. Installata ieri al Burlo, l’apparecchiatura chiamata «Combimatrix» utilizza tecnologie all’avanguardia per applicazioni biomediche e servirà a una nuova rete di ospedali, coordinata nel capoluogo regionale. Tre i primi beneficiari: l’Istituto San Matteo di Pavia, l’Istituto neurologico Besta di Milano e il Gaslini di Genova.Finanziata con fondi del ministero della Salute (345 mila euro) e arrivata in Italia dall’azienda americana CombiMatrix, la nuova apparecchiatura con il servizio messo a disposizione dal Burlo punta sulla ricerca di base con ricadute applicative di utilità pratica. «La strumentazione - ha spiegato il genetista Paolo Gasparini, uno dei promotori del progetto - permette di realizzare supporti essenziali per svolgere ricerca in maniera competitiva e potenziare l’attività diagnostica, cosa che lo rende particolarmente utile in una struttura come il Burlo dove ricerca e diagnostica vanno a pari passo».I microchip di «CombiMatrix» avranno benefici immediati, a partire per esempio dal campo infettivologico dove miglioreranno sia la qualità che la tempistica delle analisi dei vari ceppi che causano l’influenza o dei sottotipi di «papilloma virus» nelle infezioni ginecologiche. Nella diagnostica delle malattie genetiche e rare, «CombiMatrix» faciliterà il lavoro dei ricercatori. Le immagini rese possibili dalla nuova tecnologia permetteranno poi di analizzare come i geni modificano la loro attività nel tempo in pazienti affetti da leucemie e tumori. «Appunto per questo - ha commentato infine il direttore generale del Burlo, Mauro Delendi - CombiMatrix rappresenta un passo avanti importante per l’istituto triestino, sulla via della ricerca e del trasferimento delle conoscenze». Federico Cesareo

martedì 12 febbraio 2008

EMOFILIA E NUOVE TERAPIE GENETICHE

La lotta alle malattie congenite della coagulazione, come l’emofilia o la deficienza di “Fattore VII”, sta compiendo promettenti passi avanti. E’ quanto emerge dalle ricerche di Franco Pagani del Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologia (ICGEB) di Trieste, svolte in collaborazione con un’equipe dell’Università di Ferrara, i cui risultati sono appena stati pubblicati sulla prestigiosa rivista internazionale Blood. I ricercatori italiani propongono un nuovo approccio terapeutico ai difetti gravi della coagulazione che possono provocare nei pazienti emorragie talvolta fatali. ”Il nostro gruppo – spiega Pagani - ha esaminato in particolar modo la deficienza di “Fattore VII”, una malattia genetica più rara dell’emofilia, che può colpire in ugual misura sia uomini che donne e provocare ecchimosi, epistassi, sanguinamento gengivale, menorragie, fino all’emorragia gastrointestinale e cerebrale.Il fattore VII è una proteina prodotta dal fegato che svolge ruolo essenziale nell'innesco del processo di coagulazione del sangue e la sua assenza non è compatibile con la vita.La deficienza del fattore VII è causata da mutazione nei siti genetici DNA deputati a guidare una corretta sintesi proteica.Durante tale processo infatti, a causa di mutazioni geniche, vengono prodotte un precursore del Fattore VII ( FVII-mRNA) che presenta una struttura molecolare modificata e pertanto, non in grado di innescare la sintesi delle proteine stesse.Il blocco del normale processo di biosintesi di tale proteina, ne comporta bassisssimi livelli nel circolo sanguigno e quindi l'insorgenza della sintomatologia tipica della malattia.In Italia si è andati ad intervenire nel meccanismo di produzione del precursore delFatttore VII , ricreando in vitro un modello cellulare che riproducesse a livello molecolare il difetto genico.Siamo riusciti ad introdurre un gene opportunamente modificato, "U1-SmRNA" che andasse a sostituisi a sistemi genici mutanti e permettesse la produzione di precursore e quindi la sintesi corretta del Fattore VII.Rispetto alle terapie convenzionali, permette notevoli vantaggi perchè garantisce una corretta biosintesi del Fattore VII esclusivamentenel fegato e previene potenziali complicazioni immunitarie. Questa tecnica , trova inoltre applicazioni in altri difetti ereditari dei fattori di coagulazione , tanto che spesso si effettuano sperimentazioni per l'emofilia B , con risultati positivi e promettenti. Federico Cesareo

giovedì 7 febbraio 2008

La memoria vacilla ? Tutta colpa di un gene

«Carneade! Chi era costui? [...] Carneade! Questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito…». Come Carneade anche importanti date storiche, capitali europee, formule matematiche precipitano nel misterioso oblio che spesso avvolge queste e simili nozioni, e tanti studenti condividono con Don Abbondio il difetto di una memoria corta. Ebbene, da oggi non è più misterioso quell’oblio tanto vituperato dagli insegnanti, e chi non ha la fortuna di avere un’ottima memoria è pienamente giustificato, perché la colpa sarebbe di un gene. La scoperta è frutto delle ricerche condotte da un gruppo di studiosi svizzeri. Si tratta del gene “5-HT2a”, che controlla il recettore della serotonina, la sostanza che permette la trasmissione di messaggi tra le cellule nervose. I ricercatori dell’Università di Zurigo hanno sottoposto ad osservazione un campione di 349 volontari, tra i 18 e i 35 anni, ed hanno notato che chi possedeva una variante di questo gene trovava maggiori difficoltà nel memorizzare sequenze casuali di parole.
La variazione genetica è circoscritta solo al nove per cento dei soggetti esaminati. Niente trucchi dunque: è impossibile che un’intera classe si dichiari colpita da questa anomalia genetica, perché il presente studio getta luce anche sulla diffusione del problema, che riguarderebbe meno di un alunno su dieci. Sarebbe un solo aminoacido nella costituzione molecolare del gene “5-HT2a” a provocare un diverso grado di efficienza nel captare la serotonina, e quindi a determinare una limitata capacità di memorizzare informazioni. È stato dimostrato che i portatori della variante possono imparare addirittura il ventuno per cento in meno rispetto a chi ha la normale sequenza molecolare, senza che questo comporti altri deficit intellettuali.Negli ultimi anni l’uso di nuove tecniche di genetica e biologia molecolare ha letteralmente rivoluzionato gli studi sull’apprendimento e la memoria. L'uso di animali modificati geneticamente ha consentito di indagare con maggiore precisione i meccanismi di base dei processi cognitivi. Lo studio in questione, infatti, non è che una conferma di un’altra ricerca, pubblicata lo scorso febbraio negli Stati Uniti, che dimostrava l’ereditarietà della memoria “episodica” causata dalla variante del gene che fabbrica neurofilamenti (gene NF). I geni responsabili delle capacità mnemoniche probabilmente sono parecchi, per questo la scarsa efficienza causata da un tipo di gene non inficia del tutto la facoltà di ricordare. L’handicap di avere ereditato questa variazione genetica è così grande che nell’evoluzione si sarebbe già perso se non fosse compensato da vantaggi d’altro tipo. Ancora un po’ di ricerca e si farà chiarezza anche su questo punto. Sarà la rivincita degli studenti smemorati? Una cosa è certa: nei prossimi anni l’identificazione dei “geni della memoria” consentirà di comprendere meglio come si instaurano le memorie a lungo termine, e forse porterà alla messa a punto di nuove strategie atte alla cura dei disturbi cognitivi, quali le amnesie, o a ridurre gli effetti negativi sulla memoria di svariate malattie psichiatriche o neurologiche, quali l'ansia, la depressione, il ritardo mentale o l’Alzheimer. Forse lo studente un pò svogliato potrà appellarsi alla variazione genetica e ottenere clemenza, ma alla moglie trascurata da un marito che non ricorda compleanni e anniversari basterà questa scusa? Federico Cesareo

martedì 5 febbraio 2008

Influenza aviaria

L'INFLUENZA AVIARIA


Negli ultimi 100 anni l'umanità ha subito tre grandi pandemie influenzali che hanno causato fino a 50 milioni di morti. Oggi la minaccia sono le cosiddette "pesti aviarie", trasmesse dai volatili, che possono colpire anche la specie umana. Dai paesi asiatici è in arrivo un nuovo virus dotato di una particolare virulenza, che decima i volatili senza poter essere arrestato. Il virus dell'influenza aviaria potrebbe presto "imparare" a passare da uomo a uomo e scatenare una pandemia pericolosissima; ci difenderemmo con farmaci e vaccini, ma … siamo preparati?



Fino a luglio era una minaccia, spettrale, che si aggirava sull'estremo oriente. Poi, improvvisamente, l'Europa si è accorta che la minaccia era sull'uscio di casa: con una lettera dal linguaggio estremamente burocratico, un veterinario del ministero dell'Agricoltura russo informava l'Organizzazione Mondiale della Sanità Animale (Oie) che i suoi colleghi di Novosibirsk, nella Siberia meridionale, avevano contato decine di cadaveri di anatre, e che gli esami effettuati avevano attribuiti la loro morte all'influenza aviaria, documentando cosi il suo arrivo agli Urali, catena montuosa che divide l'Asia dall'Europa. Da qui avrebbe potuto, presumibilmente, invadere l'Europa migrando insieme alle anatre.


MIGRAZIONE

Perché tanto allarme per la morte di semplici anatre? Il problema è che il virus dell'influenza aviaria, chiamato "H5N1", può minacciare anche l'uomo. Per ora sono state colpite solo un centinaio di persone, tutte nel sud‑est asiatico, per contagio diretto da uccelli di allevamento con cui erano a contatto. Ma gli scienziati temono che presto possa "imparare" a trasferirsi da uomo a uomo scatenando una pandemia, cioè un'epidemia di dimensioni mondiali.


Virus H5N1

Questo, fortunatamente, non vuol dire che il passaggio, in corso in questo periodo, delle anatre siberiane sulla penisola italiana possa essere pericoloso per la popolazione: finora il virus per passare da animale a uomo ha avuto bisogno di sfruttare la strettissima convivenza dei due e le precarie condizioni igieniche (situazione che, fortunatamente, in Italia non è frequente).
Ci sono però indizi del rischio del passaggio del virus da uomo a uomo: la ragazzina tailandese di 11 anni che si infettò nel settembre 2004 viveva a stretto contatto con i polli, ma morendo trasmise l'infezione alla madre e alla zia, entrambe non esposte al rischio. Questo è il primo focolaio di "probabile" trasmissione da uomo a uomo. In un altro caso, invece, non si trova il volatile responsabile della malattia: in un ricco sobborgo di Giacarta (Indonesia), dove ci sono solo ville e giardini curati e non ci sono polli, anatre e neppure tacchini, a luglio sono morti un uomo di 38 anni e, poco dopo, le sue 2 figlie. Un terzo focolaio sospetto, il più numeroso finora, è stato registrato ad agosto in Vietnam, dove sono stati coinvolti una coppia e i loro tre figli.



La grande paura degli esperti è che questo sia solo l'inizio di un incubo e che un virus mortale, capace di trasmettersi facilmente da uomo a uomo come il virus della comune influenza, stia per nascere.
Un virus per scatenare una pandemia deve avere almeno tre caratteristiche:
1- Avere sulla sua "copertura" esterna delle proteine sconosciute al sistema immunitario umano.
2- Essere capace di far ammalare l'uomo.
3- Essere capace di trasmettersi da uomo a uomo.
Per ora il virus H5N1 soddisfa solo i primi due criteri, ma non ancora (se i casi sospetti non saranno confermati) il terzo. L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) valuta comunque elevato l'attuale rischio di pandemia e non è in grado di prevedere quando si verificherà e quale sarà la sua gravità.
Le probabilità che il virus si modifichi per potersi trasmettere da uomo a uomo aumentano con la diffusione del virus e con l'aumento delle opportunità di infezione. Per questo motivo gli epidemiologi sono pronti ad intervenire per contrastare ogni focolaio di infezione sospetto.
Se si individua subito il focolaio, la somministrazione di un antivirale ai potenziali contatti delle persone ammalate può bastare per limitarne la diffusione. Un gruppo di ricercatori della Emory University di Atlanta in Georgia, ha ipotizzato che il primo focolaio possa essere di 500 mila casi. Se ogni paziente infetto non trasmette la malattia a più di 1-2 altre persone, intervenendo con l'antivirale entro 21 giorni si potrebbe spegnere il focolaio stesso.
L'influenza aviaria spaventa perché fin dai primi casi del 1997, il virus ha causato spesso polmoniti virali, che sono di solito una complicanza secondaria dell'influenza classica dovuta al sovrapporsi di infezioni batteriche, curabili con gli antibiotici. Ma nell'influenza da H5N1 la polmonite è strettamente correlata al virus e non risponde agli antibiotici, risultando spesso fatale. Nei 2‑3 giorni che intercorrono fra infezione e manifestarsi dei sintomi, il virus penetra nelle cellule della parete polmonare ed è possibile il contagio. Il sistema immunitario risponde a questa invasione liberando le citochine, proteine che rendono permeabili i capillari polmonari, consentendo alle cellule di "pattuglia" di raggiungere il "nemico" ed attaccarlo. Una percentuale di malati guarisce spontaneamente, altri (pochissimi) non manifestano sintomi, ma per alcuni di essi le pareti dei vasi diventano troppo permeabili e nei polmoni fluiscono i liquidi del sangue che cominciano a riempire i singoli alveoli: se la malattia non regredisce, la quantità di liquidi aumenta, rendendo necessario il ricovero in ospedale e la ventilazione forzata (per permettere all'ossigeno di arrivare ai polmoni, incapaci di assorbirlo dall'aria).
Probabilmente al momento non ci sarebbero vaccini e pochi Paesi sarebbero pronti con adeguati farmaci antivirali; inoltre la dotazione di apparecchiature per la ventilazione forzata sarebbe, in caso di pandemia, insufficiente.

Cosa Fare?
I rischi immediati, legati al passaggio delle anatre infette sull'Europa sono, per fortuna, pochi e facilmente fronteggiabili.
Che rischi ci sono per gli altri uccelli europei che verranno in contatto con le anatre infette? E per gli allevamenti di polli e tacchini? Il timore è che il guano infettante delle anatre malate, cadendo sulle mangiatoie o sul terreno di razzolamento dei volatili da cortile, possa trasmettere loro l'epidemia. Per questo Olanda e Germania hanno deciso che tutto il pollame debba stare al coperto. Ancora nessun provvedimento è stato invece preso da inglesi, belgi e italiani.
In Italia l'Istituto zoo-profilattico delle Venezie "campiona" ogni anno gli animali migratori per seguire l'evoluzione dell'influenza aviaria e sorveglia gli allevamenti. Nel 2004, con oltre 1.000 esami, non sono state trovate infezioni negli uccelli migratori. Inoltre l'avicoltura italiana è diversa da quella olandese, dove le galline ovaiole erano tenute prevalentemente all'aperto e quindi più esposte al pericolo di contagio. In Italia anche gli allevamenti a terra sono per lo più al coperto. Anche l'Italia nel 1999 ha dovuto combattere contro H7N1, un altro ceppo dell'influenza aviaria, che aveva colpito gli allevamenti veneti e lombardi. Nel 2004 ha già immunizzato con un vaccino bivalente (H7N1 e H5N1) studiato per gli uccelli, gli allevamenti di alcune province di quelle due regioni, con buoni risultati. Nel frattempo, per precauzione, l'Unione Europea ha chiuso le frontiere alle importazioni di volatili, uova e piume dai Paesi colpiti dall'infezione.

La "rotta" delle anatre infette
Alcune anatre migrano in settembre-ottobre partendo dagli Urali dove fanno il nido. Sorvolano l'Italia lungo le coste e alcune si fermano in alcune zone dell'Italia (Laguna di Venezia, Delta del Po, Comacchio, Cervia, Gargano, Circeo, Cagliari ...) dove passano l'inverno.

Al momento i grandi allevamenti non dovrebbero correre rischi, mentre per proteggere gli animali da cortile, soprattutto tacchini e maiali, molto sensibili all'infezione, si consiglia di tenerli al coperto.
Per fortuna i piccioni, i maggiori candidati in Italia al ruolo di "untori" del virus tra la popolazione umana, dovrebbero essere refrattari all'infezione.

La prevenzione tra gli uomini
Per difendere l'uomo dal nuovo virus, il governo britannico ha già iniziato a diffondere fra i sanitari un libretto di 50 pagine contenente tutte le informazioni per gestire una pandemia.
Per il momento gli strumenti a disposizione per difenderci dalla nuova minaccia non sono però molti. Alcuni farmaci antivirali riducono la risposta del sistema immunitario e la possibilità di trasmissione dell'infezione ad altri. Per questo l'OMS consiglia l'accantonamento preventivo di una scorta di antivirali sufficiente a coprire il 25% della popolazione. Ma non tutti i Paesi hanno le scorte sufficienti; la stessa Italia ha una scorta di 150 mila cicli, pari soltanto allo 0.3%.

Questa la "copertura" di antivirali di alcuni Stati
OLANDA
NORVEGIA
ISLANDA
IRLANDA
GRAN BRETAGNA
FRANCIA
GERMANIA
SPAGNAITALIA
31.5 %
30.5 %
27.6 %
25 %
25 %
21.4 %
15.8 %
5 %
0.3 %
(Dati aggiornati a giugno 2005)

Gli antivirali sono alla terza generazione: alla prima appartengono Amantadina e Rimantadina: di basso costo, al punto che il loro abuso li ha resi inutilizzabili.
Sono invece ancora efficaci gli antivirali detti "di seconda generazione" come Oseltamivir (che si assume per via orale) e Zanamivir (inalabile). L'Oseltamivir agisce impedendo alle cellule di liberare il virus moltiplicatosi al loro interno. Se preso entro 48 ore dall'inizio dei sintomi (prima lo si prende e meglio è) è in grado di ridurre gravità e durata della malattia. Zanamivir va invece inalato e questo potrebbe creare problemi nei casi in cui la respirazione è difficile (per complicanze polmonari). Entrambi, se ben conservati mantengono l'efficacia per una decina d'anni, ma hanno un costo elevato e sono a totale carico del paziente. Per non diminuire l'efficacia anche di questa arma bisogna cominciare la terapia solo se si è certi che l'infezione sia dovuta al ceppo H5N1. Per questo, e per ridurre il rischio di coinfezione con due ceppi virali, è consigliata la vaccinazione contro la comune influenza invernale.
è poi in arrivo la terza generazione di antivirali: CS8958 della BioCryst Pharmaceuticals di Birmingham, in Alabama: un'iniezione basta a prevenire l'infezione per 1‑2 settimane. E il Vira38 della PRB Pharmaceuticals, sperimentato a Hong Kong ed efficace contro Sars e H5N1.
Gli antivirali servono nella prima fase dell'infezione, poi toccherà ai vaccini: se i calcoli saranno rispettati, il vaccino italiano dovrebbe essere pronto 3-4 mesi dopo l'inizio della eventuale pandemia. La presenza in questo vaccino dell'F59, un adiuvante che stimola la produzione di anticorpi, lo rende molto efficace, per cui ne dovrebbero bastare solo 15 microgrammi per dare la copertura. In questo modo l'Italia potrebbe diventare uno dei pochi Paesi autosufficienti, ma solo dopo alcuni mesi di epidemia.

I MOTIVI DI RISCHIO
Mortalità
La mortalità causata dal virus H5N1 è molto elevata. Nei 112 casi umani finora registrati si è rivelato mortale in oltre il 70% dei casi. L'H5N1 è un virus "aviario", cioè specifico degli uccelli e, tra gli uccelli (soprattutto sono colpiti i polli), uccide nel 100 per cento dei casi! La sua elevata virulenza è dovuta alle sue proteine di superficie: l'emoagglutinina H5 e la neuroaminidasi N1 (da cui il nome H5N1). La maggior parte dei virus influenzali animali o umani possiede queste due proteine H ed N: un tandem che permette l'infezione, permettendo al virus di riconoscere una molecola, l'acido sialico, presente sulla superficie di tutte le cellule aviarie. Alcune coppie H e N non hanno questa caratteristica (ad esempio quelle dei virus umani H3N2 o H1N1, che infettano soltanto il tessuto polmonare). Grazie a H5 e N1, il virus aviario entra ed esce liberamente dai tessuti respiratori, digestivi e muscolari dei volatili, provocandone la distruzione per necrosi e/o rottura delle cellule, tanto diffusa da provocare la morte sul colpo. Anche l'uomo ha, sulla superficie delle cellule, le stesse molecole di acido sialico, anche se in quantità limitata. Per contrarre la malattia bisogna dunque essere in stretto contatto con i volatili infetti; nell'uomo il virus non sembra in grado di propagarsi da un individuo all'altro e si localizza nei polmoni, dove distrugge il tessuto polmonare e induce una polmonite che in 15 giorni porta alla morte.
Contagio
Nel primo semestre 2004, decine di milioni di polli sono stati contagiati in tutta l'Asia e, malgrado la macellazione sistematica, il virus è ancora in circolazione. Il numero di casi umani resta invece molto limitato.


Questo perché, al momento, il virus non si trasmette da uomo a uomo, per le condizioni diverse: ad esempio la temperatura del corpo è più bassa e l'H5N1 può entrare nelle cellule, ma non moltiplicarsi. Solo se il virus riuscisse ad adattarsi a un ambiente intracellulare diverso, superando la quasi invalicabile "barriera di specie" costituita da geni, proteine, glucidi, lipidi, condizioni di temperatura e di pH, molto diversi tra uccelli e mammiferi, potrebbe diventare contagioso per l'uomo ... e ciò, purtroppo, non è impossibile. Per i virus influenzali, ad esempio, adattarsi a una nuova specie è un gioco da ragazzi! Al virus aviario H5N1 basterebbe incontrare nella stessa cellula un altro virus umano, per esempio l'H3N2 o l'H1N1, per creare un nuovo virus "ibrido". Sono state proprio le "ricombinazioni" tra virus aviari e umani a causare le epidemie influenzali più drammatiche del '900: la spagnola del 1918 (40 milioni di morti), l'asiatica del 1957 (4 milioni di morti), l'influenza di Hong Kong del 1968 (2 milioni di morti).
Vaccino
Sarà indispensabile lavorare a un vaccino che possa agire sulle proteine di superficie H5 e N1. La difficoltà risiede nel fatto che le proteine di superficie del virus dell'influenza aviaria mutano molto facilmente e ad ogni ciclo di moltiplicazione in una cellula, subiscono alcune modificazioni che possono sfuggire al vaccino. Inoltre, produrlo per milioni di persone sarebbe impossibile. Secondo gli esperti, per proteggere milioni di persone le principali armi a disposizione restano ancora i piani di quarantena e gli antivirali attualmente a disposizione.
Terapia
Gli antivirali agiscono all'interno della cellula infetta e sono di due tipi: i primi bloccano la liberazione del materiale virale una volta che il virus è penetrato nella cellula, ma quelli a disposizione sono inefficaci sul virus H5N1; della seconda categoria fanno parte quelli che bloccano le proteine N del virus (le neuramminidasi), che permettono l'emissione dalla cellula delle nuove particelle, accorciando di 24 ore la durata dei sintomi nell'uomo. La loro efficacia non è ancora del tutto dimostrata. In ogni caso, solo delle misure sanitarie rigorose potranno limitare i danni: il ruolo dell'Oms appare perciò cruciale, ma le sue linee guida internazionali dovranno essere recepite in fretta.
Virus Patogeni
Il nemico numero uno è il virus aviario H5N1, ma tra i virus influenzali altamente patogeni degli uccelli, molti altri costituiscono una grave minaccia: A(H7N7), A(H9N2), A(H7N2) ... I portatori sani dei virus migrano, si fermano negli allevamenti all'aria aperta e contaminano i volatili. Inoltre le rotte migratorie degli uccelli stanno cambiando, esponendo anche altre regioni al rischio di contagio. I virus influenzali interpretano bene il nome della famiglia che li raggruppa tutti: "Influentia", in latino significa "avvenimento incontrollabile".

Per Saperne di Più:
1- http://www.who.int/csr/disease/avian_influenza/en/ (la pagina dell'OMS dedicata alla sorveglianza sanitaria dell'influenza aviaria).
2- "L'influenza con le ali" di Amelia Beltramini – pubblicato su FOCUS n° 156 – Ottobre 2005 - Gruner+Jahr/Mondadori Milano.
3- "L'influenza dei polli" di Guido Romeo – pubblicato su EXPLORA n° 10 – ottobre 2005 - Unipress Editore Milano.



ULTIME NOTIZIE (10 ottobre 2005): Il virus dei polli è in Europa
Tre contagi sono stati scoperti tra le anatre della riserva ornitologica del delta del Danubio, in Romania, meta di molti uccelli migratori. In una fattoria del nord della Turchia, poi, sono stati abbattuti 1500 polli per prevenire la diffusione del virus che aveva causato la morte di circa 2000 tacchini in un allevamento vicino. Nella zona colpita è stato imposta dal governo una "quarantena" estesa ad un raggio di 3 chilometri intorno alla fattoria, primo focolaio del virus. Intanto i veterinari stanno cercando di capire se il virus in questione sia proprio il temuto H5N1.
Dalla prossima settimana la carne bianca venduta in Italia sarà

venerdì 1 febbraio 2008

Australia.al trapianto eseguito cambia gruppo sanguigno e sistema immunitario

Australia. Le trapiantano il fegato, e lei cambia gruppo sanguigno e sistema immunitarioUn evento eccezionale e senza precedenti che ha per protagonista una quindicenne australiana e' avvenuto in modo naturale con un impatto enorme in immunologia: la ragazza, che a nove anni aveva ricevuto un trapianto di fegato, ha cambiato gruppo sanguigno e sistema immunitario acquisendo quelli del donatore, col risultato di poter dire addio alle terapie antirigetto.La ragazza, spiega Stuart Dorney dell'ospedale pediatrico Westmead di Sydney, e' passata da gruppo 0 negativo a 0 positivo perhe' le cellule staminali del fegato ricevuto anni prima hanno invaso il suo midollo osseo e cominciato a produrre un nuovo sistema immunitario, uguale a quello del donatore, eliminando il suo. Ed e' proprio quest'evento, riportato sulla rivista The New England Journal of Medicine, che ha permesso alla giovane di sospendere la terapia antirigetto: essendo quello del donatore il suo nuovo sistema immunitario va d'accordo, infatti, col fegato trapiantato.'E' stato come una seconda chance per la mia vita' ha dichiarato la giovane Demi-Lee B, raccontando l'evento che e' il Santo Graal dei trapiantologi.

A MILANO al san raffaele cominciano esperimeti tk

Milano. Al San Raffaele comincia sperimentazione 'TK'Comincera' nelle prossime settimane al San Raffaele di Milano la sperimentazione clinica di fase III di una terapia chiamata 'TK' per le leucemie ad alto rischio, basata sul trapianto di cellule staminali del sangue da donatori non completamente compatibili. Lo scorso 22 gennaio infatti Molmed, societa' di biotecnologie nata da uno scorporo dell'Istituto San Raffale, ha annunciato di aver avuto il via libera a iniziare lo studio clinico dall'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA).L'autorizzazione e' la prima in assoluto in Italia per una Fase III di una terapia genica (quella che prelude alla commercializzazione). La preparazione dello studio ha goduto del supporto dell'EMEA, l'Agenzia europea del farmaco, che ha concesso alla terapia TK il requisito di farmaco orfano.Le leucemie ad alto rischio -spiega Claudio Bordignon, presidente e amministratore delegato di MolMed- sono neoplasie del sangue per le quali l'unica terapia potenzialmente curativa e' costituita dal trapianto di cellule staminali emopoietiche da un donatore sano. Ma questi e' disponibile solo per il 30-40% dei pazienti. Gli altri possono avere cellule solo parzialmente compatibili (e si parla di aplotrapianto) da familiari stretti.Quando la compatibilita' non e' completa, e' necessario abbassare le difese immunitarie del paziente, per impedire che il suo sistema aggredisca le cellule trapiantate (rigetto). Ma se questa immunodepressione e' troppo forte, puo' accadere il contrario, che cioe' sia il sistema immunitario del donatore (coi suoi linfociti T), contenuto nelle cellule trapiantate, ad aggredire il paziente (cosiddetta aggressione del trapianto verso l'ospite). E mantenere questo equilibrio non e' semplice.Ora, TK offre una strategia terapeutica che permette di mantenere le proprieta' terapeutiche del trapianto e al tempo stesso di controllare l' aggressione del trapianto verso l' ospite. Questa terapia si basa sulla modificazione genetica dei linfociti T del donatore in modo che esprimano il gene dell' enzima 'timidina kinasi' del virus dell'Herpes Simplex. Questo fatto rende questi linfociti T sensibili al farmaco antivirale gancicolovir. E nel momento in cui si verifica l'aggressione del trapianto verso l'ospite, e' sufficiente somministrare l' antivirale per spegnere la reazione.Lo studio multicentrico randomizzato di Fase III verifichera' l'ottimo risultato del precedente studio di Fase I/II, in cui si e' ottenuto un incremento significativo nella sopravvivenza dei pazienti. Per Marco Dieci, Direttore Affari Regolatori di MolMed, 'l' autorizzazione dell'AIFA e' significativa anche perche' TK e' una delle poche terapie cellulari/geniche a giungere in Fase III a livello mondiale, e percio' potrebbe diventare una delle prime ad ottenere l'appovazione alla commercializzazione'.Nel corso dell'anno, MolMed prevede anche l'inizio di uno studio di Fase I/II di TK negli Stati Uniti, gestito dal MD Anderson Cancer Center di Houston (Texas). Mentre un partner strategico di MolMed, Takara Bio Inc. (Giappone) sta sviluppando TK per i mercati asiatici. Federico Cesareo

Cellule staminali nella leucemia infantile

Identificate le staminali della forma piu' comune di leucemia infantile. Un risultato che "rende piu' facile trovare cure mirate contro questo tumore del sangue che colpisce i bambini", rivelano su Science i ricercatori britannici dell'universita' di Oxford. Si tratta di rare staminali che si trovano nel sangue e che funzionano "come un 'centro di controllo' in grado di produrre milioni di cellule cancerose che mano a mano sopravanzano quelle sane", spiega il coordinatore dello studio, Tariq Enver. La scoperta e' arrivata grazie a due gemelle monozigoti britanniche di quattro anni, Olivia malata di leucemia, e sua sorella sana Isabella.Grazie a questo privilegiato punto di osservazione, gli scienziati sono riusciti a tornare indietro nel tempo fino alle condizioni pre-malattia. E sono arrivati a supporre che bastano "due o tre mutazioni genetiche per innescare ogni forma di leucemia infantile. Questo spiegherebbe perche' Olivia e' malata e Isabella no". Anche perche' "confrontando le cellule del sangue delle due bambine abbiamo scoperto che entrambe hanno il gene TEL-AML1 danneggiato".Una condizione che pero' da sola non basta per ammalarsi. E infatti i ricercatori hanno isolato le staminali del cancro con la mutazione originaria prelevate da Olivia, le hanno mutate in laboratorio e poi iniettate in alcuni topi. Cosi' facendo hanno potuto osservare come la mutazione si mantenga nel sangue e funzioni come una bomba a orologeria, capace di scoppiare solo quando interviene una seconda mutazione. "Il che significa che anche Isabella potrebbe ammalarsi, sempreche' si verifichi la seconda mutazione genetica necessaria". Il prossimo passo della ricerca sara' invece quello di "colpire sia le staminali pre-leucemiche, che quelle gia' impazzite, con farmaci gia' in uso o ancora in fase sperimentale.Senza incorrere negli effetti collaterali".Cesareo Federico

SPAD per sopprimere il mal di schiena

Per il mal di schiena c'è la micrografiaSecondo gli ultimi dati statistici il mal di schiena è la prima causa di assenza dal lavoro. Solo in Italia ne soffrono oltre 15 milioni di persone. Oggi una nuova metodica ci permette di lavorare in microgravità ottenendo ottimi risultati.La microgravità è stata studiata e sperimentata da molti anni presso l’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti, sotto la sapiente guida del prof. Raoul Saggini, direttore della cattedra di Medicina Fisica e Riabilitativa. Si tratta di una metodica terapeutica non invasiva che consente di porre rimedio ai più fastidiosi “problemi di schiena” (ernie, protrusioni discali, scoliosi, ipercifosi, ecc.) grazie ad un meccanismo che permette la decompressione delle principali vertebre che causano la patologia. Ciò si ottiene con l’utilizzo di alcuni vincoli che permetteranno di “riallineare” la nostra postura mentre si cammina su di un normale tapis roulant.La SPAD ( Sistema Posturale Antigravitario Dinamico) e' il miglior sistema non invasivo per risolvere i dolori di schiena, perche' consente di riattivare una programmazione posturale, nonche' una rieducazione del cammino.L'uso della micrografia con l'apparecchiatura SPAD consente la modificazione dei difetti di equilibrio corporeo. Federico Cesareo

mercoledì 30 gennaio 2008

Tecnica di Southern

I frammenti di DNA generati dalle endonucleasi di trascrizione, separati per elettroforesi sul gel e trasferite col blotting su membrane filtro vengono rilevati con sonde radioattive di DNA. Questa procedura e' denominata tecnica di Southern. Promotori della sintesi di mRNA eucariotico sono piu' complessi di promotori procariotici, possono richiedere fattori di trascrizione multipli per formare un complesso di trascrizione. Hanno specifiche sequenze di Dna "TATA " box, che vengono riconosciute come proteine e sono tutti DNA a cui si lega RNA polimerasi per la trascrizione.Federico Cesareo

Biologia del sistema immunitario

Le cellule T maturano, acquistano capacità funzionali e apprendono il concetto di self all'interno del timo. Il timo svolge il duplice compito della selezione positiva (i cloni che riconoscono il complesso MHC/Ag vengono posti in condizione di proliferare, maturare e migrare in periferia) e della selezione negativa (i cloni che reagiscono al self, riconoscendolo come estraneo, vengono eliminati). Gli esatti meccanismi cellulari e molecolari di questa selezione non sono del tutto conosciuti.Durante lo sviluppo fetale la cellula staminale T, derivata dal midollo osseo, si sposta nel timo, dove matura e apprende il concetto di self. Si svolge quindi il processo della selezione timica e ai linfociti maturi viene consentito di lasciare la ghiandola; essi si ritrovano nel sangue periferico e all'interno dei tessuti linfoidi. Tutte le cellule T mature esprimono il CD4 o il CD8 in maniera mutuamente esclusiva.Federico Cesareo

Alcune proteine aggressive del tumore al seno

Era da tempo in cima alla lista dei principali indiziati di un delitto di cui ogni anno sono vittima oltre 36mila donne italiane, ma malgrado la sua puntuale presenza sulla scena del crimine, finora nessuno era mai riuscito ad incastrarla. Il suo nome e' interleuchina 6, una proteina il cui eccesso e' tradizionalmente associato ad un tumore, quello al seno, che uccide nel nostro paese circa 11mila donne l'anno. A trovare finalmente la pistola fumante che la inchioda alle sue responsabilita' un gruppo di giovani ricercatori dell'Universita' di Bologna che, secondo la rivista scientifica Journal of Clinical Investigation ha dimostrato che la proteina non solo rende piu' aggressive le cellule tumorali, ma induce anche un effetto 'dottor Jekyll e mister Hyde' su quelle sane, che in sua presenza iniziano a dare segni di pazzia tipici del cancro.Lo studio e' ancora piu' interessante perche' si intreccia con una delle nuove frontiere della ricerca medica oncologica, quella delle cosiddette cellule staminali tumorali: le vere leader dello sviluppo del cancro al seno.
Sono proprio queste, infatti, ad essersi mostrate sensibili all'interleuchina 6.'Le staminali sane, esposte all'interleuchina, iniziano ad assumere atteggiamenti tipici di quelle maligne -spiega Massimiliano Bonafe', 38 anni, a capo del team di ricercatori dell'Universita' di Bologna-. Cominciano a migrare, a spostarsi cioe' facendosi largo tra le altre cellule, sopravvivono in apnea, anche in ambienti poveri d'ossigeno, e tendono a crescere, contrariamente alle altre, anche in sospensione, prive di una base d'appoggio. Tutti segnali preoccupanti. Abbiamo inoltre osservato che, cosi' come le staminali del cancro, iniziano a produrre loro stesse altra interleuchina. E questo sembra rispondere ad un altro grattacapo, cui la scienza finora non aveva trovato soluzione: da dove proviene l'interleuchina in eccesso nelle pazienti con cancro al seno?'.Si sapeva gia' da tempo che questa proteina avesse una stretta relazione col tumore della mammella. Non solo infatti si riscontra in abbondanza nelle pazienti, ma a concentrazioni piu' elevate corrispondono tumori piu' aggressivi e potenzialmente letali. Nessuno pero' finora era riuscito a spiegare come interagisse col tumore, e nemmeno cosa ne originasse l'eccesso. Conoscerla meglio, spiegano gli studiosi, e' importante anche perche' si tratta di una proteina che ci accompagna per tutta la vita, centrale in molti processi dell'organismo, normalmente con funzioni benefiche.'Aver trovato una prova del suo ruolo sull'innesco del tumore al seno apre la strada a nuove strategie preventive e terapeutiche. Da un lato, anche in assenza di una diagnosi di tumore, l'aumento d'interleuchina potrebbe fungere da campanello d'allarme e suggerire una serie di accorgimenti preventivi al fine di scongiurare l'eventuale insorgenza del cancro. In secondo luogo, si potrebbero studiare e perfezionare farmaci o anticorpi in grado di neutralizzarne l'effetto. Nel Regno Unito ci sono gia' pazienti trattati in questo modo'.Federico Cesareo

Due geni per la salute del sistema immunitario

Due geni per la salute del sistema immunitarioLa scoperta rappresenta un “anello mancante” nel cammino chimico che, se alterato, è coinvolto nell’insorgenza di patologie quali il lupus, il diabete di tipo 1, il cancro e l’AIDS Un gruppo di ricerca del Weill Cornell Medical College di New York ha identificato due geni che sono coinvolti nella produzione dell’interleuchina-10 (IL-10), un’importante citochina che fa parte del sistema immunitario. La scoperta rappresenta un “anello mancante” nel cammino chimico che, se alterato, è coinvolto nell’insorgenza di patologie quali il lupus, il diabete di tipo 1, il cancro e l’AIDS."La produzione di IL-10 deve essere mantenuta in un delicato equilibrio affinché l’organismo possa rimanere in salute”, ha spiegato Xiaojing Ma, docente di immunologia e microbiologia della Weill Cornell. "Troppe IL-10 possono lasciare il corpo più vulnerabile nei confronti di virus e tumori, e di patologie autoimmuni come il lupus; quando viceversa esse sono presenti in quantità scarse, ciò può dare il via a patologie infiammatorie.
Per questo motivo, una migliore comprensione dei meccanismi di regolazione di queste citochine non può che fornire una migliore comprensione di tali patologie e, in linea di principio, aprire la strada a nuovi possibili approcci terapeutici”.Ogni secondo, milioni di cellule del corpo vanno incontro al processo di morte programmata chiamato apoptosi. Le cellule morte vengono individuate e rimosse dai macrofagi. Questi ultimi, esprimono le citochine Il-10 al fine di sopprimere l’attività di altre cellule del sistema immunitario, note come cellule T, ed evitare in tal modo l’instaurarsi di una risposta immunitaria generalizzata. Secondo quanto riferisce la rivista “Immunity”, Jianguo Liu e colleghi della Weill Cornell hanno scoperto due geni – noti come Pbx-1 (pre-B transcription factor 1) e Prep-1 (Pbx-regulating protein 1) - che codificano per proteine implicate nei processi che consentono ai macrofagi di esprimere le IL-10."Poiché l’espressione delle IL-10 e la soppressione delle cellule T a essa collegata sono così importanti per l’eziologia di molte malattie, le scoperte come la nostra consentono di individuare i cammini molecolari che in futuro potrebbero rappresentare nuovi bersagli terapeutici.” Federico Cesareo

malt1 la proteina che infiamma

Malt1, la proteina che ti infiammaContrastando l'azione di questa proteasi, si potrebbe permettere all'organismo di ristabilire la propria capacità naturale di bloccare i processi infiammatori
PAROLE CHIAVE
autoimmune
L'infiammazione è una normale reazione di protezione contro le infezioni, che mira a rimuovere gli agenti patogeni dall'organismo, ma a volte va fuori controllo dando origine a malattie autoimmuni come l'artrite reumatoide, la malattia di Crohn, la psoriasi, ma portando anche, in alcuni casi, allo sviluppo di forme tumorali. Per le patologie autoimmuni più severe la strategia terapeutica attuale è quella di agire per inibire in una certa misura il sistema immunitario, con ovvi effetti collaterali indesiderati. Strategie alternative richiedono una migliore comprensione di tutti i passi del processo infiammatorio.
Ora, per la prima volta alcuni ricercatori dell'Università di Ghent, del Flanders Institute for Biotechnology e dell'Università cattolica di Lovanio hanno dimostrato che una proteina, MALT1, è in grado di distruggere la proteina A20, che ha un ruolo di primo piano nell'inibizione dell'infiammazione.
Come spiegano in un articolo pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Nature Immunology"a firma Beatrice Coornaert, Rudi Beyaert, Thijs Baens e Peter Marynen, da tempo era noto che la proteina MALT1 ha un ruolo nel promuovere le reazioni infiammatorie, ma non erano chiari i meccanismi attraverso cui tale azione si svolge. I ricercatori hanno ora scoperto che MALT1 è una proteasi, che fa letteralmente a pezzi la proteina A20.
I ricercatori sperano di riuscire a sviluppare farmaci che, contrastando l'azione di MALT1, permettano all'organismo di ristabilire la propria capacità naturale di bloccare i processi infiammatori, fornendo così un'alternativa agli attuali trattamenti che interferiscono pesantemente con l'efficienza del sistema immunitario.

Federico Cesareo